Per quanto ogni uomo condivida con gli altri uomini alcune caratteristiche, la somma di queste caratteristiche sarà in ogni caso qualcosa di unico. Gli studi di psicologia cognitiva ci insegnano che l’organizzazione del mondo percepito avviene attraverso i concetti. Ricondurre una situazione, un oggetto o una persona ad una classe concettuale ci permette di risparmiare energie nella formulazione di aspettative e pronostici. Quando diagnostichiamo un paziente come “depresso”, la tentazione è quella di attribuirli tutti i connotati che il concetto di depressione si porta a presso e di fare inferenze circa il modo in cui si comporterà basati sulla diagnosi. Un approccio del genere nega, tuttavia, l’unicità dell’uomo e in quanto tale può essere molto pericoloso. Si rischia di non comprendere appieno l’individuo nelle esigenze che lo muovono verso una richiesta d’aiuto.
Alla luce di queste considerazioni verrebbe da chiedersi a cosa possa servire, dunque, fare una diagnosi. Non sarebbe forse più opportuno limitarsi alla verifica di eventuali punti di forza e di debolezza del paziente? Questo secondo tipo di approccio sarebbe altrettanto limitante poiché, evitare di ascrivere un paziente ad una categoria diagnostica, ci impedirebbe di sfruttare tutto il panorama di ricerche che negli anni sono state svolte. Nel mondo scientifico e clinico le informazioni e gli studi sono comprensibili a tutti gli esperti del settore proprio perché utilizzano un linguaggio condiviso. Questo linguaggio condiviso sono le etichette diagnostiche. Inoltre le istituzioni e la burocrazia del mondo sanitario prevede la necessità di formulare diagnosi.
Detto questo possiamo descrivere l’esame psicodiagnostico come un processo ipotetico-deduttivo all’interno del quale lo psicologo svolge il ruolo di investigatore attivo formulando ipotesi e procedendo alla loro eventuale falsificazione come si trattasse di un processo di problem solving e decision making. Il fine ultimo non si limita alla classificazione nosografica del paziente (categorizzazione all’interno di una classe diagnostica) ma vuole approfondire le peculiarità dello stesso.
Secondo il modello multidimensionale dell’assessment il clinico può raccogliere informazioni circa il paziente attraverso tre principali canali i quali valutano dimensioni tra di loro connesse ma relativamente indipendenti: il canale verbale, l’osservazione diretta del comportamento e le registrazioni strumentali dell’attivazione fisiologica.
Canale verbale: sono tutte le informazioni che il paziente ci fornisce attraverso l’indagine del colloquio clinico, attraverso la compilazione di questionari, attraverso lo svolgimento di test proiettivi, l’uso di interviste strutturate o attraverso l’utilizzo di specifici diari. (leggi anche il post: il colloquio clinico)
Osservazione del comportamento: sono tutte le informazioni che possiamo recuperare osservando il comportamento del paziente, il comportamento non verbale durante il colloquio, la richiesta di simulare artificiosamente situazioni di vita reale (role playing), qualora il setting terapeutico lo preveda, l’interazione con il coniuge. Oltre a tutti queste situazioni, inevitabilmente influenzate dal setting atipico, esiste anche una procedure di osservazione sul campo che prende il nome di “osservazione naturalistica”. Nemmeno questa tecnica è immune da bias, qualsiasi osservazione soffre il fenomeno della reattività del comportamento: il comportamento di una persona cambia per il solo fatto di essere osservata. In generale l’osservazione naturalistica è particolarmente indicata quando il paziente soffre di disturbi del comportamento.
Registrazioni strumentali dell’attivazione fisiologica: si tratta della raccolta di informazioni attraverso la registrazione di alcuni indici psicofisiologici (i più comuni sono: attività mioelettrica, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, temperatura periferica cutanea, pressione sistolica e diastolica, conduttanza cutanea). Questi indici sono associati con determinati stati emotivi del paziente. L’interesse del clinico può essere duplice: da un lato verificare quale sia il tipo e il grado di attivazione fisiologica innanzi a determinati stimoli (per esempio nelle fobie) e dall’altro verificare se quanto il paziente riporta attraverso il canale verbale è coerente con quanto fornisce quest’altra indagine. Per esempio i pazienti alessitimici sono incapaci di riconoscere e verbalizzare le proprie emozioni.
Bibliografia
Sanavio, E., & Cornoldi, C., (2010). Psicologia Clinica. Bologna: il Mulino
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